Capitolo 7: La Morte del Bastardone

Capitolo 7: La Morte del Bastardone

Eravamo nella stanza dell'imperatore Nerone. L'aria era densa di incenso e un odore nauseabondo di vino stantio e piaceri dissoluti. Le pesanti tende di velluto rosso scuro avvolgevano il letto a baldacchino, creando un'atmosfera soffocante, quasi morbosa. Lì, sdraiato, lo trovammo. Il bastardone. Nudo, con un sorriso ebete sul volto, circondato da corpi addormentati di schiave, quasi fossero oggetti. La vista mi riempì di un'ondata di disgusto e rabbia pura, una furia fredda che mi gelò le vene.

Nerone aprì gli occhi, i suoi iridi annebbiate dal vino si posarono su di me. Un sorriso mellifluo, malato, gli si allargò sulle labbra. "Vi aspettavo," mormorò, una risata roca che gli sfuggì. "I miei sogni mi hanno predetto il vostro arrivo. Siete i miei assassini, non è così? Ah, che onore. Così rudi, così... risoluti."

Non risposi. Non c'era bisogno di parole. Il mio pugnale era già nella mia mano, freddo, pesante, la lama che rifletteva la flebile luce delle lampade a olio. Lo sollevai, lentamente. I miei occhi erano fissi sui suoi, un istante di gelido trionfo, la fine di anni di tormento.

"Tebris," dissi, la mia voce un sussurro che solo mio fratello poteva sentire, "guarda."

Tebris era al mio fianco, il suo volto una maschera di dura soddisfazione. Non gioia, non sollievo immediato, ma la profonda quiete di un tormento che stava per finire.

Poi, con un unico, potente colpo, affondai la lama nel petto di Nerone. Il sangue si sparse sul velluto rosso, una macchia scura che si allargò, assorbita dal tessuto prezioso come un destino ineluttabile. Il suo sorriso si spense, gli occhi si sbarrarono in un'espressione di incredulità e orrore. Un ultimo, gutturale rantolo, e poi il silenzio, un silenzio assordante che riempì la stanza.

La vendetta era compiuta. Il mio respiro era affannoso, ma il peso che portavo sulle spalle da anni si era dissolto. Non c'era euforia, solo un vuoto che speravo si sarebbe riempito con la pace. Io e Tebris non perdemmo un secondo.

"Via," sibilai. "Ora."

Più veloci di un giaguaro che insegue la sua preda, ci lanciammo fuori dalla stanza. Corremmo tra i corridoi, i nostri passi risuonavano nel silenzio improvviso del palazzo. Ma il silenzio non durò. In lontananza, sentii il suono delle trombe, acuto e minaccioso. L'Impero si stava svegliando. La nostra vendetta era stata consumata, ma il prezzo, il nostro destino, era ancora da pagare.